Conversione all’islam e riscatto, Souad Sbai vede del marcio nel caso di Silvia Romano. Ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica per commentare la liberazione della giovane cooperante milanese dopo un anno e mezzo di sequestro in Somalia, l’ex deputata del Pdl attacca frontalmente sbriciolando tabù, segreti di Stato e convenzioni buoniste. Si parte dalla trattativa con al Shabaab, il gruppo jihadista somalo che ha rapito Silvia e che la liberata dietro il pagamento di un riscatto da 4 milioni di dollari. “Quattro milioni non sono niente per questi terroristi – è il drammatico sospetto -, lì c’è stato qualcosa di più grosso“. Magari uno scambio di influenze, un riconoscimento di credibilità inimmaginabile per il gruppo terroristico, “incoronato” come padrone del corno d’Africa proprio grazie a questa negoziazione.
C’è poi il tema della conversione, indotta forse proprio dai carcerieri anche se Silvia, che oggi vuole essere chiamata con il nome islamico di Aisha, sostiene essere stata assolutamente libera. La Sbai, marocchina di nascita da sempre impegnata contro l’Islam radicale e la violenza sulle donne, ammette il suo disagio: “Sto male perché penso che quel vestito massacra le donne, quel velo ha il significato che siamo sotto ricatto di qualcuno – sottolinea commentando le immagini della Romano atterrata a Ciampino con il velo islamico e l’abito tradizionale somalo, simboli della nuova fede in Allah -. Io sono stata la prima a manifestare per Silvia, se però è stata radicalizzata non c’è ritorno”.