Anche un’islamologa musulmana nega l’obbligo del velo – L’islamologa marocchina Asma Lemrabet, studiosa scientificamente autorevole e rispettata, ritiene che nel Corano non si trovi traccia dell’obbligo del velo femminile. Si tratta di una divisa ideologica dei fondamentalisti e non di religione.

La questione dell’hijab continua a tenere banco sia nel mondo musulmano, arabo e non, che in Europa. Anzitutto, dal Marocco è arrivata una bordata che ha colpito al cuore il fondamentalismo passionario del velo obbligatorio. L’islam infatti non presenta alcun precetto che impone alle donne di indossare necessariamente una “uniforme” come indumento “standardizzato”. Ad affermarlo è l’islamologa marocchina Asma Lemrabet, studiosa scientificamente autorevole e rispettata, dopo aver esaminato attentamente tutti i versetti coranici che si riferiscono al vestiario femminile.

In particolare, Asma ha analizzato a fondo la terminologia utilizzata, contestualizzandone il significato e giungendo così alla conclusione che il Corano non sancisce l’obbligo dell’hijab, bensì “raccomanda un atteggiamento”, o meglio un’”etica” comportamentale che chiama in causa sia il corpo che la mente, esortando uomini e donne ad adottare una cultura della “decenza” e della rispettosità. È questa etica del pudore interiore ed esteriore, della modestia e della moralità a risultare apprezzata al cospetto divino. Infatti, “il migliore dei vestiti è la taqwa”, ovvero il timore di Dio, non un pezzo di stoffa più o meno lungo e avvolgente che nel corso dei secoli è servito a far sparire progressivamente la figura della donna a livello sociale e culturale, secondo i dettami del fondamentalismo e non certo della religione.

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Avendo raggiunto tale consapevolezza, Asma ha deciso di dismettere l’hijab che portava fin da bambina, vincendo finalmente la soggezione nei confronti di un’imposizione che contrasta con la spiritualità islamica, con buona pace dei militanti dei Fratelli Musulmani, dei salafiti e del regime khomeinista iraniano, senza dimenticare i talebani ed estremisti vari. La tesi di Asma, come tutte le tesi, è certamente passibile di essere smentita sul piano filologico e dell’interpretazione (non su quello dell’ideologia e della propaganda). Che si apra allora il dibattito e si facciano avanti teologi e “sapienti” con argomentazioni effettivamente valide, in grado poi di sopravvivere alle contro-argomentazioni che la stessa Asma avanzerà.

Su questi sviluppi nel dibattito intra-islamico sull’hijab, andrebbe richiamata fortemente l’attenzione anche delle organizzazioni che si occupano della promozione e dei diritti umani. Tra le principali, saltano all’occhio le prese di posizione assunte da Amnesty International per la loro non piena linearità e coerenza. Amnesty si fa portavoce del diritto delle donne iraniane di non subire l’imposizione dell’obbligo del velo, appunto, tuonando contro la legge approvata dal parlamento dei mullah che introduce misure ancora più restrittive di quelle in vigore al momento del pestaggio e del successivo decesso di Mahsa Amini.

Contemporaneamente, Amnesty International ha criticato aspramente il divieto di indossare l’hijab per le atlete musulmane alle imminenti Olimpiadi di Parigi, così come stabilito dagli organizzatori francesi: «Le norme discriminatorie che regolano l’abbigliamento femminile sono una violazione dei diritti umani delle donne e delle ragazze musulmane e hanno un impatto devastante sulla loro partecipazione allo sport. Questo blocca gli sforzi per rendere gli sport più inclusivi e accessibili».

Sulle rigidità del laicismo alla francese incarnato oggi dal “macronismo” si può aprire un lungo discorso a parte, ma Amnesty International forse farebbe bene a considerare che le organizzazioni pro-hijab in Francia, alcune delle quali capitanate da giovani musulmane (come “Les Hijabeuses” che si contrappongono all’annullamento del divieto del velo nel calcio) sono espressione della stessa ideologia fondamentalista che spinge a violenze e torture il regime iraniano contro la popolazione femminile. È il notorio velo “identitario”, vessillo del cosiddetto Islam politico in tutte le sue varie forme, che ha già inghiottito paesi come Francia, Belgio e Gran Bretagna, e continua la sua espansione sistemica nel resto d’Europa, Italia compresa.

Nel garantire sia il diritto di non portare il velo che di portarlo, il rischio è quello di fare il gioco degli islamisti radicali, supportati sempre di più dalle sinistre dei vari “campi larghi” anche alle urne elettorali. Un gioco dove sono le donne a perdere, sia la libertà che la dignità. Amnesty International dovrebbe allora decidere da che parte stare.

 Di Souad Sbai

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