PRESIDENZIALI IN ALGERIA E REPRESSIONE – Le elezioni presidenziali previste per il prossimo 7 settembre in Algeria porteranno al regime change (cambio di regime) del Paese governato con la dittatura dei militari? L’esercito algerino è un attore politico dominante nel Paese nordafricano, mantenendo il potere per il Fronte di liberazione nazionale (Fln). Il presidente Abdelmadjid Tebboune, ex primo ministro sotto Abdelaziz Bouteflika, incarna questa continuità di Governo. Il suo secondo mandato, conforme alla Costituzione, è in corso. Il potere è concentrato principalmente nell’Esecutivo, con il presidente che controlla sia la legislatura che il sistema giudiziario. Questo si traduce in una forte influenza sulle nomine dei membri del Consiglio supremo della legislatura e dei giudici, oltre al potere di veto sulle leggi e al controllo sugli organismi di regolamentazione, inclusi quelli che supervisionano la spesa pubblica. Le elezioni saranno caratterizzate dalle restrizioni sui media indipendenti e dalla repressione dell’opposizione politica. Nonostante ciò, ci sono state manifestazioni significative che hanno chiesto riforme politiche fondamentali, inclusa la libertà di espressione e di riunione. Tuttavia, il regime ha reagito, reprimendo i manifestanti e arrestando i leader dell’opposizione.
L’Algeria è il secondo produttore di petrolio in Africa, con il 60 per cento delle entrate pubbliche generate dagli idrocarburi. Il Paese ha tre principali rotte per il trasporto di petrolio e gas naturale verso l’Europa. Allo stesso tempo, dipende dalla Russia per oltre il 70 per cento delle sue importazioni di armi. Queste dinamiche di geostrategia incrociata e le richieste represse di maggiore partecipazione politica popolare mettono in evidenza l’instabilità e la tensione nel Paese, sebbene possano non essere immediatamente visibili. Oppure si fa finta di non vederle in nome della cosiddetta realpolitik, in nome di quel fabbisogno energetico di cui, però, non si calcolano le “accise” in termini di costi di vite umane.
Il popolo algerino soffre. Human Rights Watch, per citare solo la più conosciuta ong che monitora lo stato dei diritti umani nel Paese, è stata chiara: le autorità algerine hanno intensificato la loro repressione delle libertà fondamentali, come la libertà di espressione, stampa, associazione, riunione e movimento, come parte dei loro sforzi costanti per sopprimere qualsiasi forma di protesta organizzata. In questo contesto, hanno sciolto importanti organizzazioni della società civile, sospeso partiti politici dell’opposizione e media indipendenti. Inoltre continuano a utilizzare leggi restrittive per perseguire legalmente difensori dei diritti umani, attivisti, giornalisti, avvocati e movimenti femminili. Nonostante l’adozione di una nuova legge di riforma dei media nel 2023, alcuni giornalisti di spicco rimangono in carcere per aver criticato il Governo, accusati di incitamento alle proteste e minaccia all’unità nazionale. Questo clima ha generato paura, sorveglianza e autocensura, portando alla chiusura di mezzi di informazione indipendenti come Liberty e Radio M negli ultimi anni.
Le accuse spesso sono di natura dubbia, come il presunto coinvolgimento nel terrorismo o il fatto di ricevere fondi per minare la sicurezza dello Stato, il che ha spinto molti di loro all’esilio. Tra marzo e aprile, le autorità hanno anche varato nuove leggi che aumentano il controllo sui media e normative sindacali che potrebbero ulteriormente limitare la capacità dei lavoratori di organizzarsi liberamente. Uno scenario, questo, che spesso viene denunciato anche dai liberali. Il fenomeno dei liberali e apostati si sta diffondendo rapidamente sui social network, guadagnando proseliti e, più che essere anti-religiosi, sono laici che si oppongono alle severe leggi religiose imposte dal governo. Tra di loro c’è Jack Le Fou, residente in Canada, Mihoub, residente in Norvegia, e moltissimi altri sparsi in Europa. Stanno diventando popolarissimi sui social network: sono noti per i loro confronti con l’estremismo radicale e i finti moderati. Organizzano dibattiti, raggiungendo un vasto pubblico, e utilizzando il metodo del “colloquio epistemico” basato su una ricerca accurata. Attraverso le loro dirette su YouTube criticano ogni giorno l’Islam radicale, sottolineando come l’islamismo costituisca un ostacolo alla democrazia e ai diritti umani. In Algeria, si rischia addirittura il carcere (5 anni, dice) se si mettono in discussione pubblicamente i testi: ad esempio, se si mettono in dubbio l’accuratezza o la rilevanza di un hadith. Ascoltandoli dibattere, abbiamo imparato parecchio e spesso rimaniamo anche senza parole di fronte alle posizioni dei loro interlocutori. Si va dal terrorismo all’omofobia, dall’antisemitismo alle minacce.
Dal 1999, con l’ascesa al potere di Bouteflika, l’Algeria ha adottato una politica ambigua sul salafismo e l’Islam radicale. La maggior parte dei salafiti, inclusi molti imam, si concentra sul conservatorismo sociale che ha causato molte vittime durante il periodo tristemente conosciuto come il Decennio nero, un lungo conflitto interno contro la popolazione che rigettava lo Stato islamico cominciato nel 1992 e terminato attorno 1999 (anche se episodi di violenza sono continuati negli anni successivi), nel quale si contarono tra i 300mila e i 400mila morti, nonostante non esista un numero ufficiale. Avrei molto da scrivere su la Décennie, ma di quel buio dell’umanità ne parlerò nel mio prossimo libro. Per oggi basta solo capire che aria stia tirando in Algeria, dove spesso il naso viene “turato”. Ma non per sentire l’odore del gas.