La visita in Libia del ministro degli Esteri turco è servita a consolidare la presenza militare di Ankara, malgrado la contrarietà del nuovo governo libico. Brutti segnali per l’Europa, Italia in testa, ma ormai il neocolonialismo ottomano in Libia è un dato di fatto.
Libia, 4 maggio: “Siamo qui per restare”. Ha tutto il sapore di essere questo il messaggio che la nutrita delegazione istituzionale turca in visita a Tripoli ha voluto convogliare al nuovo governo di unità nazionale libico. Il ministro degli esteri, Najla Al Mangoush, ha reiterato insistentemente al collega turco, Mevlut Cavusoglu, la richiesta di onorare sia gli impegni presi al vertice di Berlino, che le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, procedendo con il ritiro delle truppe e dei cosiddetti mercenari siriani inviati da Ankara, “al fine di preservare la sovranità del popolo libico”.
Durante la conferenza stampa congiunta, Al Mangoush si è però scontrata con la “faccia di gomma” di Cavusoglu, impassibile nel rifiutare l’etichetta di “illegali” per le forze turche tuttora schierate in Libia, facendosi scudo con il memorandum d’intesa siglato con il governo precedente, guidato dal fantoccio Fayez Al Sarraj.
Il memorandum riguarda la cooperazione in ambito militare tra Tripoli e Ankara, e a rivendicarne la stipula è stato anche il ministro della difesa, Hulusi Akar, scortato dal capo dell’intelligence, Hakan Fidan, uomo fidato del presidente-sultano-dittatore Erdogan, e dal capo di stato maggiore, Yasar Guler. Nel corso di un evento a cui hanno presenziato i più alti ufficiali libici, Akar ha affermato: “Siamo qui per aiutare e proteggere i fratelli libici”. Si riferiva forse ai Fratelli Musulmani? La domanda è retorica. In ogni caso, la Libia dovrà fare i conti con il colonialismo neo-ottomano turco, a cui Akar ha conferito una connotazione ipocritamente “benevola”, ancora a lungo.
La concessione del porto strategico di Misurata, ricevuta da Al Sarraj, è infatti della durata di 99 anni e lì, come nel porto di Al Khoms e nella località di Al Watya, al confine con la Tunisia, Ankara ha stabilito base militari dotate di batterie missilistiche e sistemi radar che intende mantenere e difendere con la presenza a tempo indeterminato di proprie truppe, regolari e irregolari, come ricordato da Gianandrea Gaiani su Analisi Difesa in un articolo del 10 aprile.
Con il colonialismo neo-ottomano turco in Libia, dovrà fare i conti anche l’Europa, a cominciare naturalmente dall’Italia. I ministri della difesa degli stati membri dell’UE, riuniti a Bruxelles mentre a Tripoli si svolgeva la visita della delegazione giunta da Ankara, hanno rinnovato l’appello per il ritiro di “tutti i mercenari” dal paese, ribadendo così la posizione espressa dal ministro degli esteri Al Mangoush. Inoltre, hanno discusso dell’ostruzionismo operato dalla Turchia che compromette la collaborazione tra l’operazione IRINI dell’UE e la flotta della NATO nel Mediterraneo.
Tuttavia, fare la voce grossa adesso serve a poco. Perché nulla è stato fatto, sia da parte dell’UE che della NATO, per impedire l’andirivieni in Libia di migliaia di estremisti siriani al soldo di Erdogan? Sono da equiparare a quelli russi in termini di minacciosità? Su suolo libico ce ne sarebbero oggi ancora 6 mila, con il paradosso che le truppe turche, come vuole il famoso memorandum, stanno addestrando i militari di Tripoli nel contrasto al terrorismo.
Non piace alla stragrande maggioranza dei libici, non piace agli europei, ma il colonialismo neo-ottomano turco in Libia è ormai un dato di fatto, destinato a condizionare gli sviluppi politici interni e le relazioni del paese con il più ampio consesso regionale e internazionale. Per l’Italia, si tratta di una spada di Damocle, che incombe costantemente sia sulla tutela dei propri interessi energetici, che sul fronte migratorio e della sicurezza. La sfida per Tripoli è soltanto cominciata.